Sta crescendo il numero di persone che preferisce lo smart working, una delle tante opportunità che ci ha dato il digitale, ma, perché funzioni, deve essere davvero smart, e non un semplice “lavoro da casa” o telelavoro. Quasi una persona su due (il 43%), dice un’indagine di Ericsson Consumer & IndustryLab, considera un requisito fondamentale per accettare una proposta di lavoro la flessibilità dell’orario o della sede. Uno su cinque la ritiene una priorità assoluta.
Smart working, però, non vuol dire collegarsi dallo studio o dal soggiorno e comportarsi esattamente come se si fosse in ufficio. In realtà comporta un cambiamento molto più profondo che si basa su principi di flessibilità, autonomia e responsabilità.
Se le aziende vogliono farlo sul serio, devono innanzitutto “cambiare testa”, cioè passare da una definizione del lavoro per ore lavorate a quella per obiettivi. Di conseguenza cambia il rapporto tra capo e dipendenti: questi non devono più timbrare un cartellino o essere sorvegliati, l’importante è che facciano quello che devono fare nei tempi previsti. La parola chiave è: fiducia.
Smart working è anche flessibilità di orari e luoghi di lavoro: si può lavorare in qualsiasi momento della giornata o della settimana, e da qualsiasi parte del mondo. È una scelta personale, a patto che si rispettino compiti e scadenze.
Per fare smart working, a chi lavora servono attrezzature, programmi e dispositivi tecnologici. L’azienda deve creare una sorta di scrivania virtuale con tutto l’occorrente, dallo spazio cloud al pc. Anche gli spazi fisici cambiano, perché sono diverse le esigenze di chi va in ufficio: le stanze possono essere ridotte o ampliate, le postazioni di lavoro possono diventare intercambiabili.
Naturalmente ognuno è libero di scegliere la modalità di lavoro che preferisce, compatibilmente con le richieste del datore di lavoro. Ma, se messo in pratica nel modo giusto, il lavoro agile rappresenta un vantaggio sia per le aziende, sia per i lavoratori.