Google ha da poco lanciato Agent2Agent, un protocollo aperto che permette agli agenti intelligenti, anche se creati da sviluppatori diversi, di collaborare e comunicare tra loro, superando barriere tecniche e concorrenze di framework. È un po’ come se improvvisamente i robot di ogni casa madre avessero trovato una lingua comune. E dietro c’è una lista di alleati che fa impressione: Salesforce, SAP, PayPal, Atlassian, ServiceNow, Workday, e persino colossi della consulenza come Accenture, Deloitte, McKinsey.
Il cuore del sistema si chiama A2A. Funziona così: gli agenti si “scoprono”, capiscono cosa sanno fare gli altri, si dividono i compiti e cooperano su flussi di lavoro complessi, anche senza condividere memoria o contesto. Una specie di intelligenza distribuita dove ognuno fa la sua parte, senza bisogno di supervisione umana. E non si parla più solo di chatbot: A2A può gestire processi come assunzioni intere, dalla selezione alle verifiche di background, tutto tra agenti.
È un passo avanti rispetto al protocollo MCP di Anthropic, che invece si occupa del dialogo tra agenti e strumenti esterni. Qui si gioca su un altro piano: l’interazione tra intelligenze artificiali, senza esseri umani nel mezzo.
La posta in gioco è enorme. Oggi ogni sistema AI vive ancora in un recinto. Ma se questi recinti cadono, e le AI iniziano a collaborare davvero, si aprono scenari nuovi: agenti che risolvono problemi complessi insieme, che si integrano in architetture aziendali, che diventano infrastrutture invisibili. Agent2Agent non è solo un protocollo: è il primo mattoncino per una rete globale di AI interconnesse. E chi partecipa adesso, potrebbe guidarla domani.