Il mondo digitale non si limita più a essere uno strumento nelle nostre mani: sta diventando un ecosistema che ci ingloba, ci influenza e, sempre più spesso, ci controlla. Pensiamo di avere il potere di scegliere, ma la realtà è che ci muoviamo all’interno di sistemi costruiti da altri, dove la nostra libertà è condizionata da regole che non abbiamo scritto. Guardiamo alla sicurezza: Google ha corretto vulnerabilità di Android sfruttate dalle autorità serbe, dimostrando ancora una volta che i nostri dispositivi non sono mai veramente sotto il nostro controllo. Ogni giorno ci affidiamo alla tecnologia senza sapere chi potrebbe sfruttare le sue falle prima che vengano chiuse. Ma il punto è che non si tratta solo di sicurezza informatica, è una questione di potere. Perché chi controlla le vulnerabilità, chi le scopre per primo e chi decide se correggerle o usarle a proprio vantaggio, ha in mano il vero potere digitale.
E non è un caso che chi guida questa rivoluzione tecnologica non siano i governi, ma le aziende private. Le startup di intelligenza artificiale vengono valutate miliardi di dollari, attirando investimenti colossali che mostrano quanto questa tecnologia sia considerata strategica. Ma per chi? Non per l’utente comune, che spesso non ha nemmeno idea di come funzionano questi sistemi. Stiamo costruendo un mondo in cui le IA generano informazioni, decidono cosa vediamo online, influenzano la politica, l’economia e la nostra percezione della realtà. Le fake news, un tempo diffuse da esseri umani con secondi fini, oggi possono essere prodotte in modo automatico e diffondersi su scala globale senza alcun controllo. La domanda da porsi non è se l’intelligenza artificiale cambierà il mondo, ma chi la userà per farlo a proprio vantaggio.
Tutto ciò ci porta alla regolamentazione. Da un lato ci sono paesi come il Regno Unito, che propongono di allentare le protezioni per favorire lo sviluppo tecnologico senza troppi vincoli. Dall’altro ci sono realtà come la Francia, che puntano su leggi più restrittive per limitare l’uso di crittografia e VPN, nel nome della sicurezza. Ma in entrambi i casi il risultato è lo stesso: le scelte vengono fatte senza coinvolgere direttamente chi subisce le conseguenze. La privacy, la sicurezza, l’accesso all’informazione: tutto viene deciso dalle grandi aziende più che dalle istituzioni, e noi ci ritroviamo a dover accettare norme che limitano o ampliano libertà senza che nessuno ci abbia mai chiesto cosa ne pensiamo.
E mentre queste dinamiche si consolidano, vediamo già gli effetti di un mondo iperconnesso e digitalizzato. Bitcoin sale del 20% per una dichiarazione di Trump, dimostrando quanto la politica e la finanza siano sempre più intrecciate con il digitale. Apple continua a migliorare Siri e lanciare nuovi dispositivi, rendendoci sempre più dipendenti dagli assistenti vocali e dalle piattaforme chiuse, che raccolgono dati su di noi in modo sempre più sofisticato. Il controllo delle informazioni diventa ancora più evidente quando scopriamo che il 56% dei contenuti sugli Oscars è stato bloccato da filtri pubblicitari troppo restrittivi, segno che la censura non arriva più da governi autoritari, ma dagli algoritmi che decidono cosa possiamo vedere e cosa no.
E poi c’è il lato più oscuro, quello che dimostra che non tutte le innovazioni portano progresso. Europol ha arrestato 25 persone per aver diffuso materiale pedopornografico generato dall’IA, dimostrando che ogni tecnologia può essere usata per il bene o per il male. La tecnologia non è mai neutrale, dipende dalle mani in cui finisce. E se il controllo delle informazioni, della sicurezza, della finanza e della privacy sta scivolando sempre di più nelle mani di poche aziende e pochi governi, la vera domanda non è quale sarà la prossima innovazione, ma chi deciderà come dovremo viverla. Perché il rischio più grande non è che il futuro sia tecnologico, ma che sia deciso senza di noi.