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Agenti AI.

Agenti AI. Ho pensato servisse un po’ di chiarezza.

Spesso si confondono tre cose completamente diverse.
Che invece vanno capite. Perché fanno cose diverse. E servono a scopi diversi.

La prima è quella che ormai conosciamo tutti: il workflow con l’AI.
È la classica automazione: decido io cosa deve succedere, e l’AI lo fa.
Mi arriva una mail, lei la legge, la riassume, crea un task e me lo notifica.
È comodo, funziona sempre uguale, e non mi delude mai. Ma non capisce.
E infatti, se le cambiamo le regole, si blocca.

Poi ci sono gli agenti AI.
E qui il discorso cambia. Perché l’agente non segue istruzioni.
Capisce un obiettivo e prova a raggiungerlo da solo.
Gli diciamo “organizza la giornata” e lui si muove: controlla i nostri impegni, cambia appuntamenti, blocca il tempo per lavorare, ci scrive un riassunto.
Si adatta. Pensa. Decide.
Non è più un esecutore, ma un collaboratore.
Solo che, da solo, può fare ben poco.

Ed è qui che arriva il vero snodo.
Una cosa chiamata MCP.
Che non è un bot, né uno strumento, né un assistente.
È un protocollo. Serve per connettere l’AI al nostro mondo digitale.
Google Drive, Slack, Notion, il nostro codice, i nostri file.

Senza MCP l’agente è brillante ma chiuso nella sua scatola.
Con MCP, apre quella scatola e si mette davvero al lavoro.

E quindi, quando ha senso usare cosa?

Il workflow serve se vogliamo qualcosa che faccia sempre la stessa cosa, sempre allo stesso modo.
L’agente serve se vogliamo un braccio destro digitale che ci aiuti a raggiungere un obiettivo.
MCP serve solo se stiamo costruendo qualcosa di serio, che deve usare strumenti reali e non solo chiacchiere da prompt.

Capirlo non è un esercizio teorico.
È l’unico modo per smettere di sprecare tempo con strumenti sbagliati.

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