Un oggetto senza schermo, da tasca, che capisce il contesto e vive con noi. Non un wearable, non un assistente da giacca, ma qualcosa di nuovo. O almeno così dicono. La promessa è enorme: accesso costante all’intelligenza artificiale, senza barriere, senza interfacce. Solo voce. E se davvero funziona, cambia le regole del gioco.
Perché se stiamo parlando di un device che rende semplice l’accesso all’AI, allora forse ci siamo. Ma semplice davvero. Non come adesso, dove serve aprire un’app, aspettare, scrivere. Se davvero basta parlare, e l’AI capisce, risponde, agisce… allora il potenziale c’è. Potrebbe diventare il ponte tra noi e l’intelligenza artificiale. E magari anche la chiave per farla usare a chi oggi non la usa mai.
Ma ci sono due grossi “ma”.
Il primo: non tutti vogliono parlare. In pubblico, in mezzo alla gente, a voce alta. È scomodo, è imbarazzante, spesso è impossibile. La voce è naturale, sì, ma solo in certi contesti. Altri richiedono silenzio, privacy, discrezione. E qui un’interfaccia vocale rischia di fallire.
Il secondo: la fiducia. Un dispositivo che ci ascolta sempre per aiutarci deve anche saper stare zitto. Deve rispettare limiti, confini, momenti. E oggi, la maggior parte delle aziende non ha ancora dimostrato di meritare quel tipo di fiducia.
Altman dice che sarà “la cosa più grande mai fatta da OpenAI”. Ive parla di una rivoluzione nel design. Forse sarà vero. Ma prima di parlare di rivoluzione, dovremo vedere se la gente è disposta a parlare con una macchina. Tutti i giorni. Ovunque.