Nick Clegg ha detto ad alta voce quello che molti pensano ma pochi osano dichiarare. E cioè che, secondo lui, se chiedessimo davvero il permesso prima di usare le opere degli artisti per addestrare le intelligenze artificiali, l’intero settore si fermerebbe. Sarebbe troppo complicato. Troppo lento. Troppo costoso. O, come ha detto lui, “incompatibile con la fisica della tecnologia”.
È un’affermazione pesante. Perché ammette che oggi il sistema regge solo se si bypassa il consenso. Se si prende, si usa, e poi (forse) si offre un opt-out. Ma è un po’ come se le aziende dicessero: “Non possiamo permetterci di rispettare i tuoi diritti, speriamo che tu non te ne accorga o non abbia i mezzi per reagire”.
Il paradosso è tutto qui. Da un lato artisti, scrittori, fotografi, giornalisti, musicisti… che chiedono solo di essere ascoltati. Di avere voce. Di non essere cannibalizzati in silenzio. Dall’altro aziende con budget miliardari che dicono: “Se dobbiamo chiedere permesso, moriamo”.
E nel mezzo c’è la realtà. Le AI non funzionano senza dati. Ma quei dati, nella maggior parte dei casi, sono opere umane. Frutto di tempo, talento e fatica. E se un’intera industria si regge sul fatto che usarli gratis è più semplice che pagarli, allora il problema non è l’artista che protesta.
Il problema è il modello di business.