Essere chiusi in una cella minuscola per mesi, senza vedere nessuno e senza stimoli, distrugge la mente. È una realtà che vivono oltre 122.000 persone negli Stati Uniti, in isolamento totale. E qui non parliamo di opinioni: gli effetti devastanti sulla psiche sono documentati da decenni.
Ora, però, succede qualcosa di interessante. Alcune prigioni in California stanno sperimentando un’idea tecnologica per alleviare questa condizione: la realtà virtuale. I detenuti in isolamento possono indossare un visore VR e, per qualche ora, uscire idealmente dalla loro cella. Possono passeggiare in un mercato in Thailandia, girare per Parigi o immergersi nella natura.
E il punto è che funziona. In alcuni istituti, le infrazioni tra i detenuti si sono ridotte del 96%. In un carcere della California, sono passate da 735 a una sola in una settimana. Risultati così forti che hanno portato alla chiusura di una delle unità di isolamento.
Ovviamente non è la soluzione definitiva, ma è il classico esempio in cui la tecnologia diventa il minore dei mali. Se un visore VR può ridurre il danno psicologico dell’isolamento, ben venga. Certo, qualcuno potrebbe dire che bisognerebbe rivedere l’intero sistema dell’isolamento, ma nell’attesa di riforme strutturali, meglio offrire un po’ di sollievo a chi altrimenti non avrebbe niente.
E a proposito di realtà virtuale, una cosa è certa: nessuno la chiama più “metaverso”. Fortunatamente. Vi ricordate quanto ho dovuto lottare contro i fanatici del “metaverso”? Erano fissati. Non conoscevano il termine, il suo significato, ma gli altri dicevano di investire lì e loro compravano metaversi pure per il gatto! Oggi dove sono i fanatici del “metaverso”? C’erano tuffiguru che facevano gli osservatori sul “metaverso”. Altri che creavano rumenta in 3D e la chiamavano “metaverso”.
Tutti spariti. Nemmeno uno che è tornato a dirmi “avevi ragione tu”. In cambio ora si sono convertiti tutti e sono diventati esperti di AI più velocemente di quanto ci mettevano a pronunciare la parola “metaverso”.