Un amico muore, e lei decide di ricrearlo con l’intelligenza artificiale.
Eugenia Kuyda non si rassegna alla perdita del suo amico Roman Mazurenko. Così raccoglie tutto quello che Roman aveva lasciato in digitale: migliaia di chat, email, messaggi, post. Ogni parola diventa materiale per un algoritmo e lo carica online in un servizio per creare bot.
Il primo passo è semplice: un bot “selettivo”. Chi scrive riceve frasi che Roman aveva davvero pronunciato. È un archivio parlante, una memoria che risponde. Poi, grazie alle nuove AI generative, riesce a generare una sorta di suo clone apparentemente pensante. Perché ora l’AI non si limita più a pescare dal passato, ma ricombina i testi, impara il suo stile e produce risposte nuove che sembrano scritte da lui. Nasce una specie di fantasma digitale.
Gli amici iniziano a scrivergli, la madre legge pensieri che non aveva mai conosciuto. Kuyda lo descrive come mandare “un messaggio in bottiglia al cielo”. Ma il cielo non c’entra: c’è solo una AI che recita, e consola solo perché noi scegliamo di crederci.
E qui negli Stati Uniti sta nascendo un nuovo mondo: lo chiamano grief tech, tecnologia del lutto. È conforto travestito da innovazione. Ma dietro resta la domanda scomoda: stiamo parlando con Roman o con una macchina che lo imita? E fino a che punto siamo disposti a delegare all’AI perfino l’elaborazione del dolore, trasformando la morte in un servizio digitale e il lutto in un abbonamento?
E questa storia apre un fronte nuovo: cosa succede quando iniziamo a preferire i morti digitali ai vivi reali? E se l’AI si sbaglia e gli fa dire cose terribili contro di noi, che il defunto invece non avrebbe mai pensato né detto?
Perché se i fantasmi generati dall’AI diventano più disponibili, più attenti, persino più “presenti” delle persone intorno a noi, il rischio non è solo confondere memoria e simulazione. È smettere di vivere nel presente e scegliere di abitare in eterno un passato artificiale.
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