Ha donato il suo corpo alla scienza. Ma nessuno le ha chiesto il permesso.
Henrietta Lacks aveva 31 anni quando le fu diagnosticato un tumore aggressivo all’utero. Siamo nel 1951, in un ospedale per pazienti afroamericani. Le cure sono minime, i diritti inesistenti. Muore pochi mesi dopo. Ma una parte di lei continua a vivere.
Durante un esame, senza il suo consenso, i medici le prelevano cellule tumorali. Si accorgono che si moltiplicano all’infinito. Mai visto prima. Nascono così le cellule HeLa: il primo ceppo cellulare “immortale”. Diventeranno fondamentali per la scienza. Vaccini, AIDS, clonazione, genetica, spazio. Ovunque.
L’industria medica guadagna miliardi. La famiglia Lacks non riceve nulla. Né soldi, né spiegazioni. Solo molti anni dopo scopriranno che il DNA della loro madre è in laboratorio in mezzo mondo. E lì cominciano a farsi domande. Chi controlla il corpo, una volta che è stato “registrato”? Chi può usare un dato biologico senza consenso? Dove finisce la scienza, e dove inizia la proprietà?
Ci metteranno decenni a ottenere un riconoscimento. E solo nel 2023, dopo una battaglia legale, i discendenti riceveranno un risarcimento simbolico da una delle aziende che aveva usato quelle cellule per fare profitto.
Oggi il nostro corpo è già un dato: il riconoscimento facciale, le impronte, l’iride, il DNA nei test di genealogia, gli smartwatch che raccolgono battito, pressione, sonno. Sappiamo dove vanno questi dati? Chi li usa? Per quanto?
Henrietta non è un caso isolato del passato. È il nostro presente. La differenza è che oggi il consenso lo firmiamo. Senza leggere. Senza capire. E quando ci accorgeremo di essere diventati “immortali” in una banca dati, sarà troppo tardi per dire no.
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