Ha imparato a programmare a 81 anni.
E ci ha insegnato cosa vuol dire inclusione digitale.
Quando è andata in pensione, Masako Wakamiya aveva 60 anni. Come tanti, si è ritrovata con giornate vuote, amici che sparivano e il senso che il mondo digitale fosse fatto per altri. Più giovani, più veloci, più connessi.
Ma Masako non ci sta. Compra un computer, si insegna Excel da sola, poi inizia a programmare. A 81 anni crea la sua prima app per iOS. Si chiama Hinadan e aiuta gli anziani a ricordare la corretta disposizione delle bambole in una tradizione giapponese. L’app va bene, piace, funziona.
Apple la invita a parlare alla Worldwide Developers Conference. Lei sale sul palco e dice: “Non è mai troppo tardi per imparare”.
Il problema non sono gli anziani, ma il mondo digitale, che viene progettato come se gli anziani non esistessero. Tutto è pensato per chi scorre veloce, per chi ha la vista perfetta, le mani ferme, la memoria fresca. E invece l’accessibilità viene ancora vista come un’aggiunta, una funzione in più, un’opzione, non una priorità.
E allora ecco il paradosso: gli anziani non si avvicinano al digitale perché il digitale non si avvicina a loro. Masako l’ha fatto, non perché fosse un genio, ma perché nessuno l’ha fermata, nessuno le ha detto che non poteva provarci. Il vero limite non è l’età, è l’idea che abbiamo dell’età.
E finché costruiamo un digitale che esclude chi è più lento, più stanco, più fragile, stiamo solo progettando il nostro stesso abbandono.
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