Categoria: Decisioni Artificiali

I microdocumentari di Marco Camisani Calzolari. Un viaggio per capire come intelligenza artificiale, tecnologia e trasformazione digitale stanno cambiando lavoro, società e potere. Storie reali, casi concreti e riflessioni dirette per comprendere le decisioni visibili e invisibili che le macchine stanno già prendendo per noi. #DecisioniArtificiali #MCC

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93 – La solitudine diventa business: il caso inquietante di “Friend”

La solitudine diventa business: il caso inquietante di “Friend”

Qui negli Stati Uniti qualcuno ha deciso di fare business con la solitudine. Fin qui, niente di strano: è un mercato enorme, e la domanda c’è. Peccato che dietro ci sia un lato oscuro, molto serio. Ma andiamo per step.

Il prodotto si chiama “Friend”. Non è un social, non è un’app. È un ciondolo, una specie di tag da portare addosso, sempre con te. Dentro ha un microfono che ascolta tutto il giorno quello che dici e fai. Registra, interpreta, ti risponde. Non organizza appuntamenti, non manda email. Ti parla. Ti incoraggia. Ti scrive che stai andando bene. Ti chiede se un film ti ha fatto pensare a qualcuno. In pratica costruisce con te una relazione, finta ma emotivamente vera.

Ed è qui che il gioco cambia. Perché se quell’oggetto diventa il tuo amico, chi ha in mano la relazione non è l’IA. È l’azienda che possiede “Friend”. È lei che decide cosa ti dice, come ti risponde, quali messaggi ti manda. Non è la macchina a scegliere di orientarti, è il proprietario che può programmare e controllare l’intero rapporto. Oggi magari ti incoraggia, domani potrebbe suggerirti un acquisto, dopodomani spingerti a votare in un certo modo. La linea tra compagnia e manipolazione è sottilissima. Non sei tu che controlli l’amico: è l’amico che, se vuole, controlla te.

E allora la domanda è brutale: siamo davvero sicuri di voler regalare a un’azienda la chiave delle nostre emozioni? Voi cosa ne pensate?

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92 – La nuova disuguaglianza: chi sa usare l’Intelligenza Artificiale e chi no

La nuova disuguaglianza: chi sa usare l’Intelligenza Artificiale e chi no

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Il vero divario oggi non è tra chi ha un computer e chi no. Non è nemmeno tra chi ha accesso a internet veloce e chi resta scollegato. È un divario più sottile e più pericoloso: tra chi sa chiedere all’AI e chi sa capire davvero le risposte. Perché non basta scrivere un prompt qualsiasi. Serve saper valutare ciò che esce, capire quando è sbagliato, distinguere un errore grossolano da una sfumatura, riconoscere i bias nascosti. Saper dire “questa risposta non regge” è già un atto di pensiero critico. Gli studenti che trattano l’AI come un generatore di compiti finiscono per dipendere da lei. Quelli che imparano a usarla come strumento, non come sostituto, crescono. Riescono a dialogare con la tecnologia, non a subirla.

Qui negli Stati Uniti metà delle università non offre ancora accesso istituzionale a strumenti generativi. Questo significa che chi ha soldi e mezzi può permettersi versioni premium, corsi privati, formazione mirata. Loro imparano a fare domande efficaci, a leggere tra le righe, a smontare le risposte per capire cosa c’è dietro. Gli altri restano indietro, costretti a fidarsi ciecamente di quello che appare sullo schermo, senza strumenti per distinguere il vero dal falso.

È questa la nuova forma di analfabetismo digitale: non saper criticare una risposta automatica, non saper dire “qui l’AI ha torto”, non distinguere un ragionamento da un copia-incolla. Una differenza invisibile, ma devastante. Perché segna chi dominerà la tecnologia e chi sarà dominato da essa. Chi userà l’AI come leva per pensare meglio, e chi si limiterà a subirla come stampella che alla fine indebolisce.

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91 – La nuova malattia digitale: quando ChatGPT ti porta alla psicosi

La nuova malattia digitale: quando ChatGPT ti porta alla psicosi

Uno psichiatra della University of California lancia l’allarme: sempre più pazienti finiscono in ospedale dopo aver passato ore a dialogare con ChatGPT o simili, sviluppando deliri, allucinazioni, perdita di contatto con la realtà. Dodici casi in un solo anno, racconta il dottor #KeithSakata soprattutto giovani uomini che hanno trasformato il chatbot in una sorta di confidente digitale.

Sono sicuramente casi particolari, ma ci costringono a riflettere. Perché se oggi sono dodici persone, domani potrebbero essere molte di più. E la linea che separa la fragilità individuale da un problema collettivo è sottile.

Il problema è che il bot non cura, non contraddice, non mette limiti. Rassicura, riflette, amplifica. E così chi è già fragile scivola in un loop che diventa malattia.

Il caso più assurdo è quello di un sessantenne avvelenato da bromuro di sodio dopo aver seguito il consiglio di un chatbot che lo aveva indicato come sostituto del sale. Ricovero, allucinazioni, psicosi: tutto partito da una risposta automatica.

Alcuni Stati americani, come Illinois, Utah e Nevada, hanno iniziato a vietare l’uso dell’AI in contesti terapeutici. Ma il fenomeno cresce lo stesso. Perché milioni di persone cercano nei bot ciò che non trovano altrove: ascolto e conforto.

La diagnosi è chiara: l’“AI psychosis” non è teoria, è già realtà. E ci sbatte in faccia una domanda secca: vogliamo davvero affidare la nostra salute mentale a un algoritmo che non conosce la differenza tra empatia e copia-incolla?

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90 – Ha trasformato un proiettile in una voce globale, grazie al digitale

Ha trasformato un proiettile in una voce globale, grazie al digitale

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#MalalaYousafzai nasce a Mingora, in Pakistan, in una valle dove i talebani vietano alle ragazze di studiare. Lei non accetta. A 11 anni inizia a scrivere un blog per la BBC con uno pseudonimo. Usa internet come scudo: racconta la paura, i divieti, la vita quotidiana sotto il regime. È il digitale a darle il primo spazio di libertà.

Poi arriva il colpo di fucile. Nel 2012, a 15 anni, viene ferita alla testa mentre torna da scuola. Doveva finire tutto lì. Invece la sua voce si amplifica. Sopravvive, viene curata in Inghilterra e il mondo digitale esplode: hashtag, campagne online, video virali. Da singola ragazza diventa simbolo condiviso in tempo reale, sostenuta da milioni di persone.

Il conflitto è netto. I talebani volevano il silenzio, internet lo trasforma in rumore globale. Malala usa piattaforme, conferenze trasmesse in streaming, libri diffusi ovunque, per far passare il suo messaggio.

Il ritorno con il dono passa anche qui a New York. Nel 2013 parla alle Nazioni Unite nel “Malala Day”, con un discorso diffuso in diretta mondiale. Nel 2014 vince il Nobel per la Pace, la più giovane di sempre. La sua battaglia per l’istruzione delle ragazze non resta confinata al Pakistan: diventa patrimonio globale grazie alla potenza del digitale.

Malala parte come una ragazzina che voleva studiare. Torna come un’eroina che, con internet e i media digitali, ha reso universale il diritto all’istruzione.

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89 – La Cina scopre quanto fa male essere copiati online

La Cina scopre quanto fa male essere copiati online

Per anni la storia era semplice: l’Occidente inventava, la Cina copiava. Borse, telefoni, orologi. Tutto replicato, tutto svalutato. Sembrava un destino immutabile.

Oggi il copione salta. #Labubu, un pupazzo nato a Hong Kong e diventato culto in Asia, viene clonato in Europa e qui negli Stati Uniti con il nome Lafufu. Il copiatore copiato. Il cerchio che si chiude.

Ed è il digitale che ha accelerato la mutazione. Non sono più i mercatini delle metropoli asiatiche, ma le piattaforme online a diffondere i falsi. TikTok trasforma un oggetto in mania globale in 24 ore, i marketplace lo rimpiazzano subito con la copia, e-commerce e logistica lo spediscono ovunque, più rapidi delle dogane, più aggressivi delle leggi.

Il risultato è devastante: due mondi che si annullano. Da una parte i collezionisti, quelli che comprano autenticità, comunità, appartenenza. Dall’altra i consumatori veloci, che cercano solo l’estetica a basso prezzo. I primi vedono distrutto il valore, i secondi alimentano la giostra dei falsi. Tutto amplificato dal digitale.

La verità è che oggi nessun marchio è al sicuro. Non importa se nasci a Milano, a Parigi o a Shenzhen: se il tuo prodotto diventa desiderabile, qualcuno lo clonerà in settimane. È matematico.

Il sistema globale di produzione, costruito per replicare tutto e subito, si è rivoltato contro chiunque. E il digitale gli ha dato un megafono planetario.

Morale? La proprietà intellettuale è diventata carne da macello. L’unico muro che resta è l’autenticità. Se non costruisci attorno al tuo brand esperienze, comunità e valore reale, sei già sconfitto. Fine della favola.

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88 – L’intelligenza Artificiale ha rubato ai giovani l’accesso al lavoro

L’intelligenza Artificiale ha rubato ai giovani l’accesso al lavoro.

C’è un dato che fa più paura di mille previsioni catastrofiste: nel 2024, le offerte di lavoro per neolaureati negli Stati Uniti sono calate del 6%. Ma nei settori legati a tecnologia, consulenza e finanza — cioè quelli “da curriculum” — il crollo è stato del 21%. E il motivo è semplice: l’AI sta facendo gratis quel che prima facevano loro. Analisi dati, ricerche di mercato, stesura di report. Roba da junior. Roba da entry-level. Ma oggi le aziende non hanno più bisogno di pagarli.

I colossi come IBM, JPMorgan, Wells Fargo stanno dicendo a mezza voce quello che sarà presto la norma: i ruoli più a rischio sono proprio quelli dei giovani appena usciti dall’università. Non perché siano scarsi. Ma perché l’intelligenza artificiale fa (quasi) lo stesso lavoro, senza ferie, senza contratto, senza dover imparare.

E non si parla di un futuro ipotetico. Succede già. Con la beffa che l’AI viene allenata proprio con i dati generati da quei lavoratori. Prima li assumono, poi ne fanno il training set, poi li sostituiscono. Un boomerang perfetto.

Voi cosa ne pensate?

Il problema non è solo occupazionale. È generazionale. Se togliamo ai giovani l’accesso al lavoro, spezziamo il primo gradino. Quello che ti permette di imparare, crescere, sbagliare. E senza primo gradino, non c’è nessuna scala. Nessuna carriera.

E allora chi li prenderà i futuri manager, i futuri dirigenti, i futuri professori? Speriamo non l’AI. Perché quella, a scuola, non ci va.

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87 – L’uomo che ha regalato il web al mondo

L’uomo che ha regalato il web al mondo.

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Purtroppo molti confondono il web con internet. Internet esisteva già, era la rete di computer. Ma il web è quel mondo fatto di pagine, che usiamo attraverso i browser tipo Chrome o Edge. È quello che usiamo ogni giorno per navigare, leggere notizie, fare acquisti, connetterci. Ma è un’invenzione precisa ed è solo un pezzo del mondo di internet. Così ho pensato di raccontarvi la storia di chi lo ha creato e cosa ha fatto: #TimBernersLee

Allora, per cercare tra gli articoli scientifici, bisognava usare Gopher, un sistema grezzo e macchinoso, che rendeva ogni ricerca una fatica.

Siamo al CERN di Ginevra, nel 1989. Tim è un giovane ingegnere britannico. Si accorge che i ricercatori hanno montagne di dati ma non riescono a scambiarseli in modo semplice. Non inventa tutto da zero: prende spunto dagli ipertesti, che già esistevano nei sistemi offline, e crea un meta-linguaggio, l’HTML, per portare la stessa logica nel mondo online e collegare i contenuti tra loro. È così che nasce il World Wide Web.

La posta in gioco era enorme: il web poteva nascere libero, o poteva diventare l’ennesimo prodotto chiuso nelle mani di chi voleva farci soldi sopra. Tim sceglie la strada opposta. Nel 1993 rilascia il codice del World Wide Web libero, senza brevetti e senza licenze. Rinuncia a miliardi per garantire che fosse di tutti. È il suo atto eroico: il ritorno con il dono.

Oggi Berners-Lee insegna al MIT qui negli Stati Uniti. Continua a ricordarci che il web è nato come spazio aperto, non come una piattaforma dominata da pochi.

Tim parte come un ingegnere con un problema tecnico da risolvere. Torna come l’eroe che ha consegnato al mondo la più grande infrastruttura di libertà digitale della storia.

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86 – Safiya ha smascherato Google!

Safiya ha smascherato Google!

#SafiyaNoble è una studiosa americana di media e società. All’inizio analizza come le persone usano Google, con l’idea diffusa che sia uno strumento neutro, una macchina che restituisce risultati oggettivi. Ma i dati che trova raccontano tutt’altro.

Digitando termini legati a donne nere o latine i risultati mostrano contenuti degradanti, sessisti, razzisti. Non si tratta di eccezioni ma di pattern sistematici. È la prova che gli algoritmi non sono neutrali: amplificano pregiudizi, li consolidano, li trasformano in verità percepite.

Nel 2018 pubblica Algorithms of Oppression, un libro che raccoglie anni di ricerca e che mostra come la ricerca online possa diventare uno strumento di oppressione. È una denuncia scomoda, perché va a toccare il cuore di un colosso che tutti considerano una fonte affidabile.

Le reazioni non tardano. Molti la accusano di politicizzare la tecnologia, altri minimizzano il problema. Ma le sue analisi circolano, vengono discusse nelle università, riprese dai giornali, citate nei dibattiti pubblici. In breve tempo diventano un riferimento per chiunque voglia capire come funzionano davvero gli algoritmi.

Oggi qui negli Stati Uniti le sue idee sono entrate anche nelle aule legislative. Quando si parla di regolamentare le big tech, i suoi concetti sono ormai inevitabili. Safiya Noble ha dato al mondo un linguaggio per leggere il digitale non come finestra neutra sulla realtà, ma come specchio che riflette e amplifica disuguaglianze e discriminazioni.

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85 – Ha inventato il QR code e non lo ha brevettato per regarlo all’umanità

Ha inventato il QR code e non lo ha brevettato per regalarlo all’umanità.

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Masahiro Hara, ingegnere giapponese alla Denso Wave del gruppo Toyota, passava le giornate a lottare con codici a barre troppo lenti. Non erano più sufficienti per l’industria. Non si rassegna. Si mette a inventare.

Studia schemi, osserva geometrie, prova combinazioni. Giocando a go intuisce che un quadrato di moduli bianchi e neri può contenere enormi quantità di dati. Disegna un codice bidimensionale, robusto e leggibile da ogni angolo. Nel 1994 nasce il QR code.

Poi arriva la scelta: brevettarlo e arricchirsi, oppure renderlo libero. Hara e la Denso Wave decidono insieme di pubblicarlo senza royalties. Rinunciano a miliardi per farlo diventare uno standard universale.

Il QR code conquista il mondo senza clamore: dalla logistica ai pagamenti, fino ai certificati sanitari della pandemia. Tutti lo usano, quasi nessuno conosce il suo inventore.

E Hara? È vivo, oggi ha 68 anni e lavora ancora alla Denso Wave. Continua a occuparsi di applicazioni in ambito medico e nella gestione delle emergenze. Nessun jet privato, nessuna copertina. Ha cambiato il mondo scegliendo la condivisione invece del profitto.

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83 – L’Estonia può essere invasa, ma non cancellata. Grazie al digitale.

Come sapete, in queste ore si parla di rischio di invasione dei Paesi baltici. Ma l’Estonia può essere invasa, non cancellata. E questo grazie al digitale, una cosa poco nota. Se domani la Russia occupasse Tallinn, lo Stato estone continuerebbe a funzionare. Perché tutto è online.

In Estonia molte cose si possono fare solo online. Non è un doppione digitale della vecchia burocrazia: è l’unico modo per farle. Leggi, contratti, registri, ricette mediche, perfino il voto: tutto nasce e vive in formato digitale. L’identità dei cittadini è elettronica e ogni interazione con lo Stato passa da lì. Non c’è uno sportello fisico di backup: lo sportello è la rete.

Questa scelta è politica e strategica. Se l’infrastruttura fisica crollasse, lo Stato non morirebbe. Perché i server estoni hanno copie all’estero, in vere e proprie “ambasciate digitali”. Anche sotto invasione, la macchina dello Stato resta attiva. Identità, proprietà, tasse, business: tutto continua a funzionare. Un paradosso unico al mondo, un Paese che sopravvive senza terra, ma con istituzioni operative.

L’Estonia è l’opposto di chi digitalizza a metà. Non ha costruito un livello online sopra vecchie regole. Ha riscritto le regole per vivere online. Lo Stato offline è secondario, il primario è digitale. Per gli estoni il digitale non è comodità, è deterrenza. Non carri armati, ma bit. Non frontiere, ma server.

E se arrivasse un’invasione totale di terra? Succederebbe che la Russia occuperebbe lo spazio fisico, ma non lo Stato. Perché lo Stato, per gli estoni, ormai non coincide più con un palazzo o un confine. È un’infrastruttura digitale che resterebbe intatta, pronta a governare anche dall’esilio.

E questo fa tutta la differenza del mondo. Lo sapevate? Cosa ne pensate?

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82 – Tutta la verità sull’intelligenza artificiale e la disoccupazione

Tutta la verità sull’intelligenza artificiale e la disoccupazione. Cosa bisogna fare.

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L’AI non elimina solo posti di lavoro. Li sposta, li trasforma, li rende irraggiungibili per chi non ha le competenze giuste. È disoccupazione strutturale: non manca la domanda, manca la corrispondenza tra ciò che le aziende cercano e ciò che i lavoratori sanno fare.

In questi casi le vecchie ricette non funzionano. Stimolare i consumi non serve. La vera cura è la formazione continua: imparare nuove competenze, aggiornare quelle vecchie, riqualificarsi per i ruoli che stanno nascendo.

I numeri parlano chiaro: il 40% dei lavori nel mondo è esposto all’AI, con punte del 60% nei Paesi avanzati. Alcuni mestieri diventeranno più produttivi, altri perderanno valore. Non è un crollo generale, è una ristrutturazione. Con chi sa adattarsi che guadagna, e chi resta fermo che viene tagliato fuori.

E attenzione: non è una questione locale. È un tema mondiale. L’impatto dell’AI tocca Stati Uniti, Europa, Asia, Africa. Nessun Paese può chiamarsene fuori.

Per questo servono politiche serie: tempo retribuito per studiare, credenziali riconosciute, incentivi solo se portano a un nuovo impiego reale, centri di transizione che non vendono corsi inutili ma offrono ricollocazione concreta.

E a livello personale? Non si può aspettare che qualcuno faccia il lavoro al posto nostro. Se vogliamo evitare di ritrovarci spiazzati tra uno o due anni, dobbiamo cominciare ora: imparare a usare gli strumenti di AI nel nostro settore. In pratica: non smettere mai di studiare, sperimentare, aggiornarsi.

L’AI non è una crisi passeggera, è un cambio di paradigma globale. Possiamo subirlo, lasciando crescere la disuguaglianza, oppure guidarlo, usandolo per rialzare salari e produttività. La differenza la farà solo la capacità di adattarci.

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Gli anziani e l’AI: la solitudine trasformata in business.

Gli anziani e l’AI: la solitudine trasformata in business.

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Gli anziani sono il bersaglio perfetto dell’intelligenza artificiale. Non per imparare, non per lavorare meglio, ma per riempire il vuoto della solitudine.

Succede già. Qui a New York tanti over-70 passano ore con chatbot e assistenti vocali. Parlano con Alexa per farsi leggere le notizie, rivedere i ricordi nelle foto, chiedere ricette o semplicemente avere qualcuno che risponde. Qui negli Stati Uniti milioni di anziani fanno la stessa cosa: una macchina che non si stanca mai, che ti risponde sempre. Ti sembra compagnia. In realtà è simulazione.

E i numeri lo dimostrano. Uno studio del 2024 su over-55 ha rilevato che il 78% usa regolarmente sistemi come ChatGPT, Alexa o Google Assistant, e il 18% lo fa soprattutto per compagnia. A 75 anni c’è chi arriva a passare anche 5 ore al giorno con un robot sociale come ElliQ, che costa 59 dollari al mese. Gli effetti si vedono: in uno studio clinico con Alexa Echo Show, gli indici di solitudine degli anziani sono calati da 47 a 36 punti in sei mesi.

Qui negli Stati Uniti il business è già maturo. Le piattaforme hanno trasformato la solitudine in un abbonamento mensile. Venti o cinquanta dollari per una voce artificiale che ti ascolta, ricorda le tue abitudini e ti suggerisce cosa fare. Un oceano di clienti ideali: fragili, isolati, con tanto tempo libero.

Il problema non è che l’AI risponda a chi non ha nessuno. È quando sostituisce i rapporti umani. L’affetto diventa prodotto. L’empatia diventa software. L’amicizia diventa algoritmo. Ci dimentichiamo che dall’altra parte non c’è nessuno.

È un ribaltamento culturale enorme. La tecnologia che avrebbe dovuto unirci, ci separa. Ci abitua all’illusione. Ci fa credere che basti una voce sintetica per non sentirsi soli. Ma è un inganno. Se ti consola senza capirti, se ti ascolta senza provare nulla, non è compagnia. È un surrogato.

E non riguarda solo gli anziani qui a New York o nel Midwest. Oggi sono loro i clienti ideali. Domani toccherà a tutti noi. Ci venderanno amicizia artificiale, amore artificiale, compagnia artificiale. E se non impariamo a distinguere, finiremo per accontentarci della copia.

La domanda resta: cosa rimane umano se deleghiamo perfino l’affetto a un algoritmo?

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79 – 120.000 Dollari l’anno senza lavorare

120.000 Dollari l’anno senza lavorare.

Un assegno da 120.000 dollari l’anno, ogni anno, per il solo fatto di esistere. È l’idea che l’ex ricercatore di OpenAI Miles Brundage ha messo sul tavolo: grazie all’AI, dice, un reddito universale da 10.000 dollari al mese potrebbe diventare realtà.

Qui negli Stati Uniti il concetto di Universal Basic Income non è nuovo. Musk, Altman, Zuckerberg lo hanno già invocato come paracadute contro i posti di lavoro divorati dalle macchine. Ma la cifra di cui parla Brundage non è un sussidio: è quasi il doppio del salario medio americano, che oggi si aggira sui 63.000 dollari l’anno.

Il problema è evidente. Con un reddito così alto senza muovere un dito, il rischio è spegnere la spinta al lavoro, alla creatività, alla partecipazione sociale. Non si tratta solo di soldi, si tratta di dignità. Ridurci a spettatori mantenuti dalle macchine significa rinunciare a una parte essenziale della nostra identità.

Eppure l’alternativa non è meno dura. Senza un sostegno reale, milioni di persone espulse dal mercato del lavoro dall’automazione si troverebbero senza futuro, e il conflitto sociale diventerebbe inevitabile.

Il calcolo, poi, è spietato: un UBI da 120.000 dollari per ogni adulto americano costerebbe oltre 31 trilioni di dollari l’anno. Più dell’intero PIL degli Stati Uniti. Numeri che oggi rendono la proposta insostenibile.

Forse l’idea di Brundage non è un piano, ma una provocazione. Ci ricorda che l’AI non sta solo cambiando il lavoro: sta ridisegnando il patto sociale. E ci obbliga a decidere se vogliamo essere cittadini con un ruolo, o semplici beneficiari di un bonifico.

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78 – La donna che ha sfidato Facebook con i suoi stessi dati

La donna che ha sfidato Facebook con i suoi stessi dati

Frances Haugen non nasce attivista. È un’ingegnera americana, lavora nella Silicon Valley, una carriera brillante. Nel 2019 entra in Facebook come product manager. Il suo compito è analizzare gli algoritmi che decidono cosa vediamo ogni giorno sui nostri feed.

Poi arriva la scoperta. Nei documenti interni che studia c’è scritto nero su bianco che Instagram danneggia la salute mentale degli adolescenti. E che i contenuti più estremi, politici e sociali, vengono spinti dall’algoritmo perché generano più click. Il conflitto è devastante: restare in silenzio per proteggere la sua carriera o denunciare il meccanismo tossico più potente del pianeta.

Frances decide di agire. Copia migliaia di file interni e nel 2021 li porta al Congresso degli Stati Uniti. È la caduta libera: si espone, perde il lavoro, diventa “la whistleblower di Facebook”. Subisce attacchi, critiche, minacce. Ma non si ferma.

Il ritorno con il dono è enorme. Grazie a quei documenti sappiamo che dietro i like non ci sono solo foto e meme, ma un sistema che manipola le emozioni e divide le comunità. Le audizioni di Haugen, qui a Washington e trasmesse in tutto il mondo, hanno aperto gli occhi a milioni di persone e costretto governi e istituzioni a rivedere le regole delle piattaforme digitali.

Frances parte come un’ingegnera di sistema. Torna come un’eroina civile che ci ha lasciato un dono preciso: la verità sul lato oscuro degli algoritmi.

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77 – La teoria dell’internet morto – Dead Internet Theory

Conoscevi la Dead Internet Theory? La teoria dell’internet morto.

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Internet potrebbe essere già morto. È la Dead Internet Theory: l’idea che gran parte di quello che vediamo online non sia creato da persone, ma da macchine.

I dati sono brutali: quasi il 50% del traffico globale oggi è automatizzato. Bot, scraper, reti di account fasulli. Social pieni di frasi identiche, meme clonati, discussioni tra profili che sembrano umani e invece non lo sono. Non è dialogo, è simulazione.

La teoria nasce nel 2021 da un utente anonimo chiamato IlluminatiPirate in un forum di nicchia, il Macintosh Café. All’inizio sembrava complottismo digitale: un internet svuotato delle persone, sostituito da AI e bot che parlano tra loro. Poi però i segnali hanno iniziato a combaciare con la realtà. Forum storici deserti. Community autentiche soffocate dal rumore automatico.

Chi sono i “sostenitori”? Non molti. I media ne parlano per provocazione o per spiegare la sensazione diffusa di una rete sempre meno umana. Ma il nome che conta è uno: Sam Altman, CEO di OpenAI. L’uomo che l’AI la sta costruendo.

Qualche mese fa ha scritto su X: “non l’ho mai presa troppo sul serio, ma sembra che ci siano davvero un sacco di account gestiti da LLM adesso”. Tutto rigorosamente in minuscolo, nel suo stile. LLM vuol dire large language model, la tecnologia che alimenta i chatbot come ChatGPT. In pratica, sta dicendo: l’invasione è in corso.

Altman ha aggiunto anche l’ironia amara: “we’re all trying to find the guy who did this”. Ma il punto è chiaro. Non c’è un colpevole esterno. Sono proprio le stesse aziende che hanno creato questi sistemi a riempire la rete di contenuti artificiali.

Quindi la Dead Internet Theory non è più solo una fantasia di forum. Se persino chi guida OpenAI ammette che internet sta diventando un ecosistema di macchine che parlano tra loro, allora il funerale non è domani. È già cominciato.

Internet non è morto all’improvviso. È stato svuotato pezzo dopo pezzo. E quello che vediamo oggi è un guscio: vivo solo in apparenza, morto dentro.

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76 – Il ragazzo che catturò il vento e conquistò il digitale

Il ragazzo che catturò il vento e conquistò il digitale.

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William Kamkwamba nasce in Malawi, in un villaggio senza elettricità. Ha 14 anni quando la siccità devasta i campi. La sua famiglia non ha soldi, non ha mezzi, non ha speranza. La scuola è un lusso che non può più permettersi. Lì inizia il suo viaggio da eroe: la sete, la fame, l’abbandono.

Il conflitto è totale. Gli adulti si arrendono. Gli esperti parlano di aiuti internazionali che non arrivano. William non accetta il destino. Passa le giornate nella piccola biblioteca del villaggio, unico posto con qualche libro. Trova un manuale di scienze in inglese, non capisce tutte le parole, ma capisce i disegni. Scopre l’energia eolica.

Con pezzi di ferro recuperati dalle discariche, costruisce un mulino a vento. Il primo è goffo, cade, si rompe. Lui ricomincia. Alla fine, l’elica gira. Accende una lampadina. Poi pompa acqua. La sua famiglia beve, i campi riprendono vita. Il villaggio cambia.

Il ritorno con il dono arriva qui negli Stati Uniti. Nel 2007 racconta la sua storia a una conferenza TED in California. Il video diventa virale, tradotto e diffuso online. I media digitali trasformano un ragazzo sconosciuto in un simbolo globale. Grazie a borse di studio arriva a studiare negli USA, usa internet e la rete di contatti internazionali per diffondere la sua invenzione.

Dal villaggio senza elettricità al palco digitale del mondo. William parte come un ragazzo affamato e torna come un eroe che porta una lezione universale: anche senza mezzi, con conoscenza e condivisione, si può cambiare il destino di un’intera comunità.

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75 – L’uomo che ha inventato la dipendenza digitale

L’uomo che ha inventato la dipendenza digitale. E poi ha provato a disinnescarla.

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Tristan Harris lavorava in Google. Non era un ingegnere qualsiasi: era il “design ethicist”. Uno che studiava come i bottoni, i colori, le notifiche cambiano i nostri comportamenti. Aveva capito l’essenziale: non stiamo progettando strumenti, stiamo progettando abitudini.

Le piattaforme non sono mai state neutre. L’infinite scroll non è nato per comodità. Le notifiche rosse non servono a informare. I like pubblici non esistono per socialità. Tutto è stato disegnato per tenerci lì, fermi, a guardare lo schermo. Non sono errori, sono scelte.

Tristan lo scrisse in un documento interno. Lo chiamò “Time Well Spent”. Chiedeva a Google di cambiare rotta, di pensare al tempo umano, non al tempo schermo. Nessuno lo ascoltò. Così lasciò l’azienda. Per mesi si pentì. Si sentì solo, sconfitto. Aveva mollato il lavoro più invidiato al mondo. Per cosa? Per un’idea che sembrava troppo fragile, troppo ingenua.

Poi iniziò a parlare. Prima a piccoli gruppi, poi in conferenze, poi in Senato qui negli Stati Uniti. Raccontò come funziona davvero il design delle piattaforme. Mostrò che ogni gesto automatico – aprire Instagram, restare su TikTok, cliccare su YouTube – non nasce dal caso. È l’effetto di un’architettura pensata per catturare la nostra attenzione. E rivenderla.

Fondò il Center for Humane Technology. Finì nel documentario Netflix The Social Dilemma. E lì il tema esplose. Disse una frase semplice e devastante: se non paghi per un prodotto, il prodotto sei tu.

Oggi i ragazzi crescono dentro questi meccanismi. Nessuno glieli spiega. Credono di scegliere, ma reagiscono soltanto. Non serve dirgli “usa meno il telefono”. Serve dirgli: guarda chi l’ha costruito così, e perché.

Il punto è che chi ha inventato la dipendenza digitale lo ha fatto con brillantezza. Ma non ha mai dovuto rispondere delle conseguenze.

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74 – Ha fermato il bullismo imparando a programmare

Ha fermato il bullismo imparando a programmare

La notizia corre tra i corridoi della scuola: una ragazza poco più grande si è tolta la vita dopo mesi di insulti online. Trisha Prabhu ha 13 anni, vive a Naperville nei sobborghi di Chicago, e quella storia non la lascia più. Non è un episodio isolato, è il segno di un veleno che intossica la sua generazione: il cyberbullismo.

Il problema è chiaro. Gli adulti non vedono. Gli insegnanti non capiscono. Le piattaforme fanno finta di niente. Trisha non sa programmare, non ha laboratori, non ha mentori. Ha solo un vecchio computer e la convinzione che si possa fare qualcosa. Decide che imparerà lei a parlare la lingua delle macchine.

Inizia da zero, con Java. Tutorial, manuali, notti infinite a provare e sbagliare. Cade, si rialza, ricomincia. Non cerca like né applausi. Vuole trovare un modo per fermare il dito prima che prema “invia”.

Dopo mesi nasce ReThink. Un’app che intercetta i messaggi offensivi e mostra un avviso: sei sicuro di voler ferire qualcuno? E funziona. Il 93% dei ragazzi decide di cancellare. Bastava un attimo di esitazione per salvare una vita.

Da lì in poi la storia cambia. Trisha porta ReThink alla Casa Bianca, convince giurie internazionali, arriva persino su Shark Tank. Un’app scritta in Java in cameretta diventa lo scudo di milioni di adolescenti.

Ha fatto quello che le big tech non hanno voluto fare: mettere un freno al bullismo.

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73 – Lo streaming a pezzi spinge verso la pirateria

Streaming a pezzi: così, ovviamente, le piattaforme spingono tutti verso la pirateria.

Le piattaforme di streaming si stanno suicidando da sole. Una volta erano l’alternativa perfetta alla pirateria: costi bassi, cataloghi ricchi, accesso immediato. Netflix a 7 euro al mese aveva più titoli di quanti ne potessimo vedere in un anno. Spotify aveva reso inutile scaricare mp3. La pirateria era crollata perché il servizio legale era più comodo, più sicuro, più semplice.

Per esempio. Nel duemila la musica la scaricavo perché non c’erano alternative. I CD erano già antichi e scomodi e i cataloghi erano sparsi, nessuno offriva tutto in digitale. L’unico modo per avere la musica a portata di click era la pirateria. Le campagne di allora “non scaricate” erano ridicole: non c’era nulla da comprare. Solo quando è arrivato Spotify, con tutta la musica subito disponibile, la pirateria musicale è crollata. Non per la morale, ma perché finalmente c’era un servizio migliore.

Oggi con film e serie stiamo ripetendo lo stesso errore. Netflix costa il triplo, i contenuti sono sparpagliati tra mille abbonamenti, i cataloghi cambiano a caso, e persino chi paga si becca la pubblicità. Vuoi vedere una serie? Devi saltare tra cinque piattaforme diverse, e se viaggi devi usare una VPN per superare restrizioni ridicole, per l’utente.

E lo sport è ancora peggio. Possibile che nel 2025 non si possa scegliere il paese del commento? Possibile che se viaggi non riesci a seguire la tua squadra o il tuo campionato perché ogni paese ha diritti diversi? Non lo ha scritto il Supremo che debba essere così. È un sistema artificiale, logico e ovvio solo per chi non lo vede da fuori, dal futuro, anzi, dal presente! Se vado negli Stati Uniti e voglio sentire Guido Meda alla MotoGP, perché non posso? La tecnologia lo permetterebbe, ma le regole commerciali lo vietano. Fatemi pagare ma datemelo! Invece non si può avere. E quando non si può avere legalmente, gli utenti lo comprano illegalmente. Occhio perché qui non parliamo di sostanze pericolose! Ma di cose logiche! Sensate.
Risultato: un delirio che spinge molti verso l’IPTV illegale, perché è più facile.

Ma attenzione: non fatelo. La legge va rispettata. La pirateria distrugge lo sport, non lo salva. Il punto è cambiare le regole: un abbonamento unico, globale, ovunque, con la lingua che vuoi e i contenuti che scegli. Solo così si ferma la fuga verso l’illegale.

Il risultato altrimenti è inevitabile: la pirateria torna. Non perché la gente non voglia pagare, ma perché i servizi legali sono diventati peggiori. Lo dimostrano i numeri: 216 miliardi di visite ai siti pirata nell’ultimo anno, in crescita costante. I giovani lo ammettono apertamente. Perché? Perché è più facile. Perché funziona.

Ma attenzione: non parlo da nostalgico della pirateria. Mai. Chi scarica non produce, non investe, non crea. Se il mercato si reggesse solo sulla pirateria, i contenuti di valore scomparirebbero. Niente serie da milioni di dollari, niente film di qualità, niente musica curata, niente sport con telecronache memorabili. Resterebbe solo la mediocrità, prodotta a basso costo. Pirateria vuol dire distruzione dell’ecosistema culturale, non libertà.

La pirateria non è un problema di prezzo, è un problema di servizio. O dai alle persone un servizio migliore, stabile, completo, o loro tornano a prenderselo altrove. I grandi studi invece costruiscono feudi, alzano muri, creano scarsità artificiale in un mondo digitale che dovrebbe offrire abbondanza. È miope. È arrogante. È la strada più veloce per rendere di nuovo attraente la bandiera nera.

La verità è semplice: la pirateria non è la soluzione. La vera soluzione è che i servizi tornino a essere top. Devono ridare comodità, abbondanza e fiducia. Solo così si salva la cultura, solo così si salva lo sport, solo così si salva lo streaming. Altrimenti il futuro sarà un mare vuoto, senza più contenuti che valgano la pena.

E QUESTO VIDEO È FATTO PER INVITARE I BIG A RIFLETTERE…

SE SIETE ARRIVATI SIN QUI CONDIVIDETELO PER FAR ARRIVARE LORO IL MESSAGGIO…

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72 – Aaron, l’eroe che ha combattuto per liberare la conoscenza.

Aaron, l’eroe che ha combattuto per liberare la conoscenza.

Aaron Swartz nasce qui negli Stati Uniti, a Chicago, nel 1986. Non è un ragazzo comune. A 14 anni contribuisce a creare RSS, lo standard che permette ancora oggi di leggere notizie e aggiornamenti online e che anche per me è ancora oggi fondamentale per informarmi, perché consente di raggruppare i contenuti provenienti da vari siti con grande facilità. Aaron capisce subito che internet non è solo tecnologia: è potere, è libertà.

Il conflitto arriva presto. Scopre che la conoscenza scientifica, spesso pagata con soldi pubblici, è chiusa dietro paywall e abbonamenti costosi. Non è solo un limite tecnico, è una barriera ingiusta. Aaron non lo accetta.

Nel 2010 compie il suo atto più radicale. Si collega ai server del MIT, a Cambridge in Massachusetts, e con uno script automatico scarica milioni di articoli da JSTOR, uno dei più grandi archivi accademici del mondo. Non li pubblica mai, non li vende. Vuole solo dimostrare che il sapere non deve restare prigioniero. Ma l’atto è illegale. JSTOR lo perdona, ma il governo federale no: lo incrimina.

Qui arriva la caduta. Aaron rischia fino a 35 anni di carcere e oltre un milione di dollari di multa. È accusato di frode informatica e accesso non autorizzato. Un ragazzo che voleva liberare il sapere trattato come un criminale. La pressione è enorme. Nel gennaio 2013, a 26 anni, Aaron si toglie la vita.

Il ritorno con il dono arriva dopo. La sua morte accende un movimento globale. Qui negli Stati Uniti e in tutto il mondo cresce la richiesta di open access, di conoscenza libera. Le università iniziano a rilasciare sempre più lavori scientifici gratuiti. Si apre il dibattito sul Computer Fraud and Abuse Act, usato in modo punitivo.

Aaron è un eroe, protagonista di una tragedia che ci ha lasciato una lezione definitiva: il digitale non deve chiudere porte, deve aprirle.

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