Il vero inventore del telefono era italiano. E gli hanno rubato tutto.
Un filo teso tra due stanze cambierà il mondo. Seguite fino alla fine, perché questa non è solo la storia di un’invenzione ma di un furto.
Antonio Meucci nasce a Firenze nel 1808. Artigiano, autodidatta, geniale. Nel 1850 emigra a Staten Island, vicino a New York, in cerca di lavoro e di salute per la moglie Esther. Lei si ammala, resta paralizzata. E lui, per aiutarla a comunicare dal letto al laboratorio, tende un cavo elettrico tra i due piani di casa.
Nasce così il “telettrofono”, il primo telefono funzionante della storia. Meucci lo costruisce con materiali di fortuna: una scatola da barba, un filo, un diaframma di metallo. Trasforma la voce in impulsi elettrici e la fa viaggiare. Nel 1871 deposita un caveat, un brevetto provvisorio da dieci dollari. Poi un incidente, la povertà e l’impossibilità di rinnovarlo.
I suoi modelli finiscono alla Western Union, dove lavorava anche Alexander Graham Bell. Quando Meucci va a riprenderli, spariti. Nel 1876 Bell deposita il suo brevetto. Stesso principio, stesso sistema. E diventa l’inventore ufficiale del telefono.
Meucci muore povero nel 1889. Solo nel 2002, qui negli Stati Uniti, il Congresso riconosce che era lui il vero inventore. Ma ormai il suo nome era stato cancellato.
Tutto quello che oggi chiamiamo digitale, tutto ciò che usiamo per comunicare, dal telefono allo smartphone, da WhatsApp all’intelligenza artificiale, nasce da quel filo teso in una casa di Staten Island. Un gesto d’amore che ha cambiato la storia della comunicazione umana. E che ci ricorda che ogni tecnologia nasce da un bisogno umano, non da un brevetto.
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